"…propositi per l’anno nuovo? Io uno ce l’ho. Quest’anno con voi voglio essere …fastidiosa, come una zanzara, come un dito nell’orecchio, come l’inquilina del piano di sopra che cammina coi tacchi e non vi lascia dormire. Voglio rompervi le scatole e lasciarvi perplessi. Soffiarvi polvere negli occhi, crearvi confusione. Mettere sotto il sopra e sopra il sotto. Darvi pizzicotti e spintarelle. Insinuarvi il dubbio su ciò che credete ovvio. Suonarvi il campanello nel mezzo della notte. Amarvi più che mai."

venerdì 23 dicembre 2011

BUONGIORNO!

Buongiorno!!! Come va oggi? Vi siete svegliati VIVI? Non è una domanda retorica, e la risposta non è banale come potrebbe sembrare. Per definirsi vivi infatti non è sufficiente aver messo i piedi giù dal letto, aver preso un caffè ed essere pronti a cominciare un’altra giornata. Per poter fregiarsi di questo aggettivo un essere umano al risveglio dovrebbe perlomeno sentire qualcosina che gli brucia dentro al petto …ardore, rabbia, emozione, creatività, entusiasmo, amore…la vita appunto. Dunque siete VIVI? O non state invece per caso perdendo le vostre giornate nella fretta (delle cose da fare), nella lamentela (delle cose che non vanno), nello sconforto (di chi si sente impotente), nell’odio (di chi si sente vittima), nell’indifferenza (di chi se ne frega), nella rassegnazione (di chi ha perso la speranza)…? Lo so, di questi tempi ce ne sarebbero di motivi per auto-giustificarsi qualora ci si riconoscesse in questo secondo ritratto. La realtà esterna pare strangolarci e ci causa un altissimo grado di frustrazione. Ci sentiamo impotenti davanti a ciò che accade nonostante noi, spalanchiamo gli occhi increduli di fronte alle scelte che vengono attuate da pochi e che spesso paiono fuori da ogni logica, quando non addirittura sfacciatamente faziose. Proviamo ad esprimerci e restiamo inascoltati; proponiamo e rimbalziamo contro muri di gomma; protestiamo e veniamo etichettati come ingrati, qualunquisti o sovversivi. In un tale contesto, inneggiare al cambiamento – sia da parte dei politici che dei cittadini - può essere molto, troppo facile, ed altrettanto vago. In primis perché cambiare non significa necessariamente migliorare, e poi perché il cambiamento accade comunque, indipendentemente da chicchessia, ed auto-proclamarsi suoi sacerdoti potrebbe suonare piuttosto pretenzioso. Anche quando tutto ci sembra immobile, infatti, c’è in realtà tanto che si muove e che produce sottili differenze, benché noi non siamo abbastanza sensibili da percepirle. Ecco perché l’invito deve essere al cambia-mente, piuttosto che al cambiamento. Se è una ripartenza che cerchiamo, mettiamoci in testa che questa può avvenire solo come conseguenza di una rivoluzione dei nostri paradigmi, in particolare con il ripristino della centralità dell’uomo, come essere spirituale ancor prima che materiale. Purtroppo chi sta cercando, anche in buona fede, anche con impegno, di “tirarci fuori dalla crisi”, commette l’errore di continuare a farlo ragionando sui vecchi modelli e alla vecchia maniera. Anche i giovani. Così ci si arrovella su come rimettere in sesto gli equilibri che sono saltati, senza capire che, quando il calzino è logoro, i rattoppi non possono più riportarlo ad essere quello che era, ma al limite rimandare di qualche tempo il momento in cui il piede rimarrà irrimediabilmente scoperto. E qualche dito di fuori mi pare che ce l’abbiamo già. Quello che si dovrebbe comprendere è che il Paese NON ha un problema; il Paese è semplicemente inserito nel processo fisiologico di autodistruzione che sta coinvolgendo il sistema economico a livello globale. Il countdown si è innescato nel momento stesso in cui il denaro, nato come “mezzo” (cioè strumento di mediazione tra gli uomini per soddisfare le proprie necessità) è diventato “fine”, producendo una distorsione drammatica che è ormai entrata nel DNA di gran parte della popolazione mondiale. Drammatica perché quando un mezzo diventa fine (diventa “idolo” in questo caso) si perde il senso delle cose. Quando non capisco più che una forchetta mi serve per mangiare ma comincio a volere A TUTTI I COSTI quella forchetta…allora ci si risveglia in un mondo in cui la gente parla di spread, di mib, di pil, di borsa che sale e che scende…credendo di star dicendo qualcosa di serio, qualcosa che ha davvero a che fare con la realtà. Ma questa roba non ha nulla a che vedere con l’uomo. E’ un falso, è un inganno. Ce lo vogliamo dire, almeno inter nos? Signori politici nostrani, sarebbe un grosso passo in avanti se invece di arrampicarvi sugli specchi per spiegarci che una patrimoniale una tantum non è nulla di grave, ammetteste che siamo rimasti imbrigliati in una rappresentazione del reale con la quale ora dobbiamo per forza fare i conti perché ci siamo dentro fino al collo ma che non è, assolutamente NON è, l’unica possibile. E che va superata. Non dobbiamo adeguarci o morire, al contrario è adeguarci che significa morire. Non ci servono dei tecnici che ripianino i bilanci se poi non abbiamo dei visionari che ci mostrino cosa farne, del pareggio di bilancio! Uomini cioè che perseguano una “visione”, un ideale, non più basato sul soldo. Che abbiano cambiato la mente, cioè l’ottica, la prospettiva. Che sappiano parlarci di cose belle, perché l’uomo ha bisogno di bellezza. Che vedano dove sta l’essenziale. Che siano VIVI. Rinfrancatevi, voi che siete rimasti vivi nonostante tutto, perché il momento è propizio! Su una tabula rasa possiamo riscrivere tutto daccapo, tutto come piace a noi. L’universo ce lo sta chiedendo a gran voce: “svegliatevi, fate un salto di umanità!” Lo dovremo fare comunque, volenti o nolenti. E allora buttiamo il cuore oltre l’ostacolo, non il portafoglio…perché così facendo, superato l’ostacolo ci troveremo un cuore! Il nostro, insieme a quello del mondo, che ci ringrazia. Buona giornata a tutti voi – e so che ci siete – che tenete duro e rimanete VIVI, nonostante tutto.

sabato 5 novembre 2011

LO STATO...E NOI

Oggi, riflettendo sul fatto che nella pratica ormai tutti gli Stati del mondo sono diventati fantocci nelle mani dei grandi banchieri internazionali, una lobby in grado di pilotare gli eventi a livello globale attraverso il proprio immenso potere economico, mi sono chiesta chi fosse in effetti lo “Stato”, questa entità sempre tirata in causa ma a ben pensarci un po’ misteriosa. Normalmente quando si parla di Stato si tende ad identificarlo col Governo (“ci deve pensare lo Stato”, “è un segreto di Stato”), termine che a sua volta, nel passaggio dall’astratto al concreto, prende necessariamente la forma di persone in carne ed ossa. Per farla breve, e per calare il ragionamento nel nostro quotidiano, ho considerato che quando parliamo di Stato a San Marino, il pensiero va inevitabilmente a quella ventina di volti noti, sempre gli stessi, che ci hanno accompagnato fin dalla prima infanzia (perlomeno la mia), quelli che qualcuno chiama La Casta. E allora non ho potuto fare a meno di domandarmi: “Possibile che quelle venti volpi, che hanno sempre dimostrato ampia agilità nel farsi – e bene - i propri affari, si lascino prendere per la collottola da un gruppetto di avidi faccendieri?” Si è aperto allora un varco nella mia mente sopita di sammarinese che non si era mai interessata alla vita pubblica ai tempi, ormai andati, delle vacche grasse ma che è costretta a farlo ora… Non sarà che lo Stato in realtà è un essere camaleontico e malleabile, che cambia faccia e forma a seconda delle occasioni? In effetti recentemente mi pare di aver capito che quando c’è da “salvare una banca” o da “chiudere un buco” qualsiasi nel bilancio pubblico…allora lo Stato siamo NOI, i cittadini. Lo deduco dal fatto, e correggetemi se sbaglio, che i soldini necessari li vengono a prelevare concretamente dai nostri stipendi, dalle nostre future pensioni (così future che non riusciamo più a vederle), dai fondi comuni di emergenza, e via dicendo… (A proposito…ma se io pago per salvare una banca e poi un giorno mi serve un mutuo e vado da quella stessa banca a chiederlo…cosa fa, mi ripresta i miei soldi e mi ci fa pure pagare su gli interessi?...a questo punto della questione mi sento un po’ idiota, non so voi…). Poi però, quando c’è da prendere qualche decisione importante, in qualunque ambito, ecco che magicamente lo Stato tornano ad essere LORO, quelle venti faccette da Muppet, che mica ti chiedono cosa ne pensi…Sono stati delegati, e quindi!!! Scusate…ma se mi rappresentate quando c’è da decidere qualcosa, non dovreste rappresentarmi anche quando è ora di tirar fuori la grana…? Così per dire, eh, è solo un dubbio… Cui ne segue un altro – si sa, quando si comincia a porsi domande poi è un disastro…- Non sarà mica che, data la natura fluida di questa entità, quei venti personaggi a volte, nelle notti di luna piena, improvvisamente non sono più lo Stato ma diventano…il gruppetto di faccendieri? Magari proprio in quelle occasioni in cui NOI diventiamo lo Stato? Sarò paranoica, ma spiegherebbe come mai il potere politico si lasci apparentemente tenere in scacco da quello economico. Le chiamano commistioni, credo. Beh beh, lasciamo stare, va’…Una volta appurato che quando c’è da pagare lo Stato siamo NOI e quando c’è da decidere lo è qualcun altro…resta da capire se ci sta bene così. Evidentemente sì, perché i primi ad aver venduto la sovranità del nostro Paese – cosa che oggi rimproveriamo un giorno sì e l’altro pure ai nostri governanti – siamo proprio NOI, nel momento in cui ci siamo dimenticati di essere lo Stato, o peggio ci siamo adeguati ad esserlo a corrente alternata. Come può difendere e ribadire la propria sovranità uno Stato i cui componenti fondamentali – i cittadini – hanno rinunciato a difendere la loro? Come si fa a scandalizzarsi della paralisi di uno Stato, quando i cittadini che lo costituiscono sono i primi a praticare l’inazione, restando immobili persino davanti all’inverosimile? Una cosa è certa: se lo Stato muore, fagocitato da un modello economico che sta implodendo su se stesso, non muoiono quei venti là, moriamo NOI. Perché in quell’occasione lo Stato saremo NOI, potete giurarci. E a quel punto le cose diventeranno chiare, non si tratterà più di “Stato” da una parte e “Finanza” dall’altra…si tratterà di due fasce di umanità, i poveri e i ricchi, i potenti e gli inermi, i padroni e gli schiavi, separati da un baratro. Dicono sia quello cui mira il Nuovo Ordine Mondiale. Ma questa è un’altra storia. Speriamo.

domenica 11 settembre 2011

DISCERNIMENTO E GIUDIZIO

Scrivo questo post per rispondere ad una domanda che mi è stata posta da un amico in un’occasione in cui ho affermato l’importanza di praticare il non-giudizio. “E come si fa a non giudicare”? – mi ha chiesto. Se ben capisco, quello che la domanda (legittima) sottintende è: non giudicare significherebbe vivere pensando che tutto è uguale, che non ci sono differenze, non c’è bianco e non c’è nero, nulla può piacerci o dispiacerci, non c’è nemmeno motivo per fare una scelta anziché un'altra, insomma, sarebbe come se l’uomo rinunciasse a ciò che più lo caratterizza, la sua capacità di giudizio, appunto, che lo distingue dagli altri esseri,…e in questo caso tanto varrebbe essere un animale o un vegetale. In effetti questa obiezione sorge quasi spontanea…per il fatto che normalmente confondiamo il Giudizio con il Discernimento, considerandoli erroneamente termini intercambiabili. Ma mentre il discernimento è puro, è cioè la semplice capacità della nostra mente di notare delle differenze o di fare una descrizione di qualcosa, il giudizio è come un parassita che immediatamente si impossessa di tale descrizione connotandola positivamente o negativamente a seconda delle emozioni che suscita in noi. Guardo passare la mia vicina e noto che è tirata a lucido. Questo è discernimento. Ma se il fatto che sia così ben vestita mi accende un sentimento del tipo “quante arie si dà”, o “sarebbe meglio spendesse i suoi soldi per altro”, questo è giudizio. Il giudizio scaturisce laddove il corpo mentale si interseca con quello emotivo, in particolare quando sono coinvolte le categorie “morali”, quelle che dividono tra bene e male, buono e cattivo, giusto e sbagliato. Ed è un meccanismo a cui siamo talmente abituati che ci sembra inevitabile, normale. Persino irrinunciabile: chi saremmo se non avessimo opinioni? O emozioni? Ma non è giudicando che ci assicuriamo una identità, anzi…ci assicuriamo solo una vita da marionette, dato che i criteri su cui basiamo i nostri giudizi sono interamente indotti (ma questo è un discorso che qui non ho spazio per approfondire). Infine, l’aspetto più interessante del giudizio è che solo e unicamente noi siamo in grado di dire se stiamo o no “giudicando” qualcuno o qualcosa…in quanto l’elemento decisivo non è la frase (o il pensiero) che pronunciamo, bensì la sensazione di fastidio che proviamo o non proviamo in concomitanza. Posso infatti dire: “Quell’alunno non studia abbastanza”. E’ un giudizio o no? Soltanto io sono in grado di sapere se nel pronunciare quella frase ho semplicemente constatato un dato di fatto in maniera neutra, o se ho provato una emozione negativa al riguardo, che può essere rabbia, disprezzo, senso di superiorità, e così via. E qui allora occorre, per chi fosse interessato a lavorarci su veramente, una buona dose di onestà con se stessi. Per tornare alla domanda iniziale…Come si fa a non-giudicare? Certamente non lo si fa da un giorno all’altro, inizialmente richiede uno sforzo, però è possibile. Se è vero, infatti, che la mente – essendo per sua natura “duale” - non può smettere di fare il suo lavoro di divisione (discernere), è altrettanto vero che ci si può allenare a fermarla un attimo prima che al discernimento si attacchi il giudizio, o almeno ad accorgersi di averlo emesso, in modo da disidentificarci da esso. Il perché sia conveniente smettere di giudicare (quasi più che smettere di fumare :-)) l’ho già descritto in un post che si trova più sotto “Nella trappola del giudizio” e al quale rimando per completezza.

lunedì 11 luglio 2011

IL LINGUAGGIO DEL POTERE



Una cosa è certa: DOBBIAMO DORMIRE. Questo è ciò che vogliono tutti i POTERI, dove per poteri intendo quelle classi che a livello mondiale hanno in mano le redini economiche, politiche e spirituali di un’umanità che conducono come un cavallo instupidito.
Uno degli effetti collaterali di vivere nel tentativo di passare almeno qualche minuto del proprio quotidiano da “svegli”, è che di tanto in tanto ti si accendono dei barlumi di consapevolezza e in uno di questi attimi di grazia ho realizzato quale grande funzione ipnotizzante possa avere il linguaggio e come questo venga utilizzato come ennesimo elemento di dominio.
Non sto parlando del linguaggio in senso lato, cioè di quella meravigliosa facoltà che consente la comunicazione tra noi terrestri che ancora abbiamo un fondamentale bisogno della parola…
Parlo invece dei linguaggi formalizzati, tecnici, specificamente assegnati ad un determinato ambito.
E questo video – arrivatomi, come sempre “per caso”, con tempismo perfetto - mi ha fornito lo spunto che cercavo come esempio, oltre ad avermi riempito il cuore di contentezza .

http://youtu.be/kO1BewZKRUs


Il tizio lì, Claudio, lo speaker dell’aereo, fa una cosa grandiosa…rompe l’aspettativa. Spirito evidentemente vivace, si permette di mettere in scena una rappresentazione che probabilmente tante volte gli era passata per la testa, ma che il linguaggio spettante al suo ruolo non gli avrebbe consentito.
E la gente si sveglia. Ride. Nota parole che altrimenti gli sarebbero scivolate da un orecchio all’altro come il ronzio di una mosca.
A volte mi capita ancora di andare ad una Messa…o di assistere ad una celebrazione in tv. Al di là delle formule ripetute, già di per sé funzionali allo sbadiglio non solo fisico, ma anche mentale, resto sempre colpita dall’atmosfera mesta e pesante, dal tono univoco del prete (da quello vecchio a quello più giovane il tono non cambia, fateci caso) e dei lettori. Una cantilena solenne, che parla di vita, gioia e gratitudine, e incredibilmente si esprime con una cadenza lamentosa, appena più gioiosa di una campana da morto. Questo è addormentante.
Basta accendere un attimo il nostro radar personale per accorgerci che siamo circondati da esempi del genere.
C’è ovviamente il politichese, quell’accozzaglia di parole trite e ritrite, girate e rigirate in mille zuppe, in un caos vestito da idee o ideologie: un codice studiato appositamente per far credere all’ascoltatore di non essere abbastanza intelligente per capire, quando in realtà non ha capito per il semplice fatto che niente è stato detto. Questo è addormentante.
C’è il linguaggio del telegiornale, oggettivo, concitato, o ammiccante, ma principalmente mirato a trasmettere ansia, come si percepisce già dalla sigla e dalla lettura dei titoli.
Ci sono i cronisti sportivi, idolatri dell’iperbole, le cui frasi sono talmente scontate che possiamo indovinarle ancor prima che le pronuncino. Questo è addormentante.
Non sto dicendo che certi linguaggi non vanno insegnati o imparati, ma che vanno imparati e poi – in certi casi – superati, scardinati. Io sono un’amante delle parole, tant’è vero che ho fatto del linguaggio il mio mestiere. Per me conoscere una lingua significa avere orecchie per sentire e la possibilità di penetrare significati.
Ma il linguaggio “consono” addormenta. Soprattutto quando è volutamente svuotato ed utilizzato per questo scopo. I POTERI creano nelle persone, anche attraverso questi canali, un’abitudine, un’aspettativa, che ogni qualvolta viene rispettata produce, sì, un senso di rassicurante linearità, ma che allo stesso tempo ipnotizza. Chi è abituato ad ascoltare sempre le stesse cose, nello stesso modo, dopo un po’ non le sente più, perde letteralmente la capacità di ascolto (quello vero), perché la mente non deve più sforzarsi.
Eppure – o dovrei dire “infatti” - tendiamo ad apprezzare chi si esprime con proprietà, mentre facilmente critichiamo chi non rientra nei parametri. Immagino un lettore di TG con un accento vagamente locale, invece che ripulito da un corso di dizione. Immagino un rappresentante istituzionale che rinunciando ai convenevoli apre un congresso ringraziando la bella barista che gli ha preparato l’aperitivo. Immagino un prete o un “fedele” che durante un’omelia si fanno una sonora risata in mezzo al silenzio stopposo. Immagino un’insegnante (io?) che prende la parola in un collegio docenti e fa un intervento in Pippese (“mi-pi scu-pu-si-pi Pre-pe-si-pi-de-pe!!”l’avete usata tutti, la lingua della P, da piccoli, no? Io sono ancora bravissima!:-)). E rido. Rido, non per il gusto di prendere in giro qualcuno. Rido perché mi sono svegliata. Perché so che tutti quelli intorno per un piccolissimo istante si sono svegliati. Rido perché per un attimo il sonno è stato vinto.

domenica 17 aprile 2011

DECALOGO QUOTIDIANO-II


NON PUO’ MANCARMI NULLA DI CIO’ CHE MI SERVE A DIVENTARE LA PERSONA CHE HO DECISO DI ESSERE, altrimenti detto, quello che ho, o che non ho, è esattamente ciò che mi serve - né più né meno - per quello che devo fare in questo momento.
Per spiegare questa affermazione è necessario dividerla in due parti…e voglio partire dall’ultima, perché sapere chi è “la persona che ho deciso di essere” è tutt’altro che banale: non si tratta di buoni propositi o di un’aspirazione all’affermazione di sé, ma ha invece a che fare con la scoperta della propria “missione” in questa esistenza. In realtà io non “decido” chi voglio essere, ma “scopro” chi sono, cosa ci sto a fare qua, quale pezzo del mosaico vado a ricoprire, e faccio di questa scoperta l’obiettivo della mia vita. In questa prospettiva il termine “missione” perde il suo alone di straordinarietà, che lo fa percepire come qualcosa di esagerato e riservato a pochi, e diventa invece prerogativa di tutti, o almeno di chiunque sia disposto a vivere questa vita ricercandone il senso. Spesso ho chiesto ai miei “insegnanti” come si facesse ad essere sicuri di aver individuato il proprio “piano di volo”…ma una risposta semplice non c’è; dire “guardandosi dentro” significa tutto e niente: certamente la certezza la si trova in sé, ma solo dopo un assiduo lavoro di auto-osservazione e di pulizia, che ci consenta gradualmente di eliminare i condizionamenti, di zittire le voci ingannevoli e i pensieri indotti, di ascoltare le propensioni e i desideri profondi dell'anima e di leggere i segnali che l’esistenza ci sparge amorevolmente sulla via come le briciole di Pollicino. Quando finalmente avviene, l’incontro con la propria missione è un’esplosione di gioia, simile ad un abbraccio con l’infinito; dapprima entusiasmante come l’innamoramento, in un secondo momento pone degli ostacoli che possono scoraggiarci o farci cadere preda dei dubbi, ma che sono allo stesso tempo gli scalini da salire per arrivare alla meta. Una meta che in effetti non si raggiunge mai, ma non per questo è meno appagante, in quanto l’obiettivo è già intrinseco nel percorso, la destinazione è già nel viaggio. La gioia dell’esistere per la propria missione è già il suo compimento, poiché Un individuo che ha sviluppato una VISIONE in cui credere è qualcuno che ha smesso di uccidersi dentro. L’Obiettivo lo resuscita a ogni istante. (V. Ignis)
Poniamo che a questo punto sappiamo qual è il compito che ci viene chiesto di realizzare. Cosa succede? Succede che nel momento in cui io abbraccio la mia missione e per essa vivo, l’esistenza – che è il mio mandante – non può farmi mancare "l'attrezzatura" che mi serve per compierla. Ci sembra di possedere troppo poco? Che parliamo di ricchezze materiali o doti intellettuali/spirituali, dobbiamo aver fiducia che abbiamo esattamente quello di cui necessitiamo per l’oggi, forse quello che in questo momento siamo capaci di amministrare e che aumenterà domani in proporzione alla nostra crescita. Del resto prima nasce l’obiettivo, si radica nel cuore, e poi l’universo si muove per far sì che arrivino anche i mezzi per realizzarlo, in modi che noi nemmeno abbiamo la fantasia di immaginare.
Riassumendo, una volta presa coscienza della propria missione, l’invito è duplice: da un lato, ancora una volta, a rinunciare a qualsiasi tipo di lamentela, nella consapevolezza che ciò che abbiamo è esattamente ciò che ci serve o che siamo attualmente in grado di gestire; dall’altro a scacciare ogni sorta di paura che possa condizionare il nostro agire lungo il percorso, nella fiducia (la fede, il fuoco fisso che arde nel petto dei guerrieri) che l’esistenza non potrà non assistere, sempre ed immancabilmente, gli operai della sua vigna.

domenica 27 febbraio 2011

DECALOGO QUOTIDIANO - I


Tempo fa’, leggendo un libro dal titolo “Il cielo ti cerca” (citato in elenco qui a lato) che ho trovato molto in linea con i principi su cui si basa il mio lavoro personale, mi sono stilata un decalogo che ho poi appeso in cucina, in modo da potermelo leggere ogni giorno. Ciascuna di queste frasi, da ripetersi quasi come una mantra, ha un contenuto molto potente e ho pensato che forse poteva valere la pena di condividerle e commentarle.
1) TUTTO QUELLO CHE ACCADE INTORNO A ME HA CONSEGUENZE POSITIVE SUL QUADRO GENERALE.Questa affermazione, che d’acchito fa sicuramente storcere il naso e scatena tutta una serie di obiezioni, è a ben guardare una professione di fede “totale”. Una fede che addirittura compie un passo ulteriore rispetto a quella religiosa comunemente intesa (e mi riferisco al cattolicesimo perché è l’unica confessione che posso dire di conoscere), in quanto qui non si tratta di accettare situazioni negative o avvenimenti dolorosi rimettendosi alla consolazione divina, ma di riuscire a “vedere” che non c’è nulla di quello che accade che sia veramente negativo, che sia un male in senso assoluto. La visione è radicale: significa in pratica che qualsiasi cosa succeda, dal piano personale, al contesto locale e mondiale…tutto “ha conseguenze positive”, cioè contribuisce all’evoluzione dell’anima universale (dio) così com’è stata – o come è – pensata. Sulla strada del ritorno all’Uno, che tutti ci coinvolge, volenti o nolenti, consapevoli o inconsapevoli, ci sono necessariamente infinite dualità da risolvere, e queste si manifestano su tutti i livelli: nelle vite delle singole persone, nelle storie di interi popoli, nelle fasi del pianeta…Tutto quello che percepiamo come indesiderabile o persino come terribile – guerre, malattie, lutti, crimini, ingiustizie, periodi di crisi, disordine… - ha dunque non solo la sua ragion d’essere, ma il suo posto indispensabile nel mosaico generale, della cui esistenza faremmo bene a ricordarci costantemente, perché troppo spesso invece viviamo concentrati sul nostro misero metro quadro. Allargando lo sguardo – con questo tipo di fede – si riescono non dico a capire (perché pur sempre di fede si tratta) ma ad intuire tanti significati, tanti possibili sviluppi costruttivi di avvenimenti che normalmente sono considerati disgrazie. Difficile entrare nel dettaglio degli infiniti esempi…ma ognuno può provare già da ora a mettere una qualunque delle situazioni indesiderate della propria vita sotto questa “lente” per rendersi conto di come tutto si trasforma. Non che venga meno di colpo il dolore che certi avvenimenti comportano come naturale reazione umana, ma la consapevolezza che questi sono solo i gusci che racchiudono il seme di una nuova conquista ci permette di guardarli con occhi diversi…ed anche il dolore che ci causano si dissolverà MOLTO più rapidamente.
Scrivo volutamente sempre in termini ampi e generali, proprio per lasciare che a ciascuno arrivi quello che deve arrivare…ma, sì, sto dicendo (anche) che se veniamo licenziati, o arriva una malattia, o il nostro paese va in malora, o il nostro compagno ci lascia, o una bambina viene massacrata, o un terremoto ingoia una città, o un pazzo fa esplodere una bomba atomica…questi eventi (davanti ai quali noi certamente e giustamente prenderemo tutte le misure che riteniamo umanamente adeguate) non sono in realtà negativi, o meglio, essi avranno comunque “conseguenze positive sul quadro generale”. OVVIAMENTE questo richiede innanzitutto una visione molto meno individualistica di quella che normalmente abbiamo e poi una grande e ferma fede. Ed è il motivo per cui questa prima frase del decalogo, oltre ad essere la più importante ed onnicomprensiva, è anche una PREGHIERA, nel senso più vero di questa parola, che non significa “chiedere qualcosa”, ma “ringraziare sempre e comunque nella fiducia (fede) che tutto quello che è, è già perfetto così com’è”.